La storia di Renzo De Vecchi, il “Figlio di Dio”: dal Milan al Genoa, il terzino che rivoluzionò il calcio e detiene record secolari. Un mito senza tempo.
Secondo la fede cattolica (suppongo anche secondo altre fedi, ma non sono ferrato in teologia) siamo tutti figli di Dio. Ma c’è chi Figlio di Dio lo è stato più degli altri. Parliamo di Renzo De Vecchi, calciatore del calcio pioneristico di inizio secolo scorso, nato a Milano e poi del Milan calciatore (prima di trasferirsi al Genoa, dove vincerà i suoi unici titoli: tre scudetti in rossoblu, che chissà non sarebbero potuti essere di più non ci fosse stata la Grande Guerra di mezzo).
Soprannominato, per l’appunto, Figlio di Dio, fu il primo calciatore a dare dignità al ruolo di terzino (“Prima di lui il terzino era ritenuto un giocatore di scarse qualità, qualcosa come un rifiuto degli altri settori, uno spazzatore semplicemente. Chi non riusciva in nessun ruolo doveva riuscire come terzino. La semplicità del compito rendeva adatti tutti gli elementi che solo potessero disporre di un rinvio potente. Con De Vecchi si apre un’era diversa. Egli fa del terzino un collaboratore del gioco” – scrive Ettore Berra ne Il Calcio Illustrato – un secolo dopo arriverò io tra i dilettanti a giocare terzino solo perché calcio gli avversari e spazzo la palla).
Considerato uno dei primi fuoriclasse del calcio italiano, ottenne in carriera due record di precocità tutt’oggi imbattuti (ed è passato ben oltre il secolo da allora): è il marcatore più giovane della storia del Milan in partite ufficiali, grazie alla rete messa a segno a 15 anni, 9 mesi e 25 giorni in Torino-Milan 6-2, ed è il giocatore più giovane ad aver vestito la maglia della nazionale, a 16 anni, 3 mesi e 23 giorni, nella partita contro l’Ungheria del 27 maggio 1910.
Un talento milanese nato sotto la stella di Kilpin
Milanese purosangue, nato il 3 febbraio 1894, Renzo De Vecchi fu il secondo autentico fuoriclasse della storia rossonera. Suo padre Enrico, tifoso accanito di questo sport che in quegli anni si diffondeva nel bel Paese, intuì il talento del figlio e, nonostante i sacrifici, si accollò le onerose quote sociali per iscriverlo al Milan Football and Cricket Club nel 1908. Fu lì che il leggendario Herbert Kilpin, uno dei padri fondatori del club (e primo fuoriclasse), gli insegnò i rudimenti del gioco, forgiandolo per diventare un campione. L’esordio ufficiale arrivò a soli 15 anni, il 10 gennaio 1909, in una partita della seconda squadra vinta 6-0 sull’Internazionale. Il debutto in campionato, pochi mesi dopo, fu in un derby vinto contro l’Ausonia (squadra in cui avrebbe militato da giovanissimo, almeno secondo Wikipedia).
Ma il Milan di quegli anni era in crisi. L’epopea dei pionieri britannici era finita e la società navigava in acque agitate. In quel deserto di talenti, De Vecchi era un’oasi di classe. Il suo rifiuto di abbandonare la nave in tempesta lo trasformò nella bandiera della squadra, un ragazzo che emergeva a tal punto da meritarsi, per le sue prestazioni, il soprannome coniato da Emilio Colombo (in futuro anche Presidente del Milan, personaggio degli albori altrettanto interessante): “Figlio di Dio”. (“Ma quel lì l’è el fieu del signor!” – pare furono le parole strettamente in dialetto di Colombo).
L’addio al Milan e l’approdo al Genoa: un trasferimento da “dopoguerra” in tempo di pace
Nonostante la sua dedizione, per un campione della sua levatura il Milan non poteva offrire prospettive, né sportive né economiche. In un’epoca in cui il calcio non garantiva il futuro, il Genoa, con l’ex compagno Edoardo Mariani a fare da “palazzo”, gli offrì un’allettante prospettiva: un lavoro ben pagato presso la Banca Commerciale di Genova. Per aggirare le rigide regole federali che permettevano i trasferimenti solo per motivi di lavoro, il presidente genoano Geo Davidson orchestrò tutto mettendo in campo una cifra record per l’epoca, 24.000 lire, e quel posto in banca con un sostanzioso aumento.
A malincuore, nel 1913, il “Figlio di Dio” lasciò Milano. In rossonero, cercarono di sostituirlo con un omonimo, Carlo, soprannominato forzatamente “il Nipote di Dio”, ma senza successo (già ai tempi gli epigoni non avevano tanta fortuna). Quella partenza segnò la fine di un’era.
La guerra, la leggenda rossoblù e il primo vero idolo del calcio italiano
La Grande Guerra troncò le carriere di molti, ma risparmiò De Vecchi. Al suo ritorno, divenne il capitano e il faro di quel Genoa straordinario e imbattuto che conquistò due altri scudetti (dopo quello del 1915) e che nel 1922-23 stabilì un record di 33 partite utili consecutive resistito per oltre 70 anni.
Ma De Vecchi fu più di un grande terzino. Fu il primo vero idolo del calcio italiano, un divo prima dei divi. Nonostante la statura non imponente e una calvizie precoce che lo rendeva inconfondibile, la sua popolarità era incredibile. Fu il primo calciatore a comparire su copertine di riviste e manifesti pubblicitari, da testimonial di una pomata per i raffreddori. Era un’icona, un esempio per i giovani. In campo, era un giocatore di alta classe, dotato di una personalità magnetica che infondeva sicurezza. Il suo marchio di fabbrica era il tempismo perfetto negli anticipi. Correva addirittura la leggenda che nessuno, in dribbling, fosse mai riuscito a superarlo. Da rigorista infallibile, pur essendo un difensore, segnò anche 7 reti in una stagione.
In Nazionale, la sua casa per 43 gare (una quantità enorme, per l’epoca), fu capitano inamovibile (dal ritorno in campo post guerra, nella quale perse la vita lo storico capitano Virgilio Fossati) e partecipò a tre Olimpiadi (senza grandi risultati, per la verità).
La vita dopo il calcio: dall’Almanacco al rifiuto al Milan
Appesi gli scarpini al chiodo, De Vecchi divenne allenatore del Genoa (conducendolo a un ottimo secondo posto nel 1929-30 e riportandolo in serie A nella stagione 1934-1935, allenando un Libonatti a fine carriera) e, in seguito, anche giornalista. Seguendo Leone Boccali, promosse nel 1939 la nascita del primo “Almanacco Illustrato del Calcio”, la bibbia che ogni appassionato conosce ancora oggi.
Negli anni ’60, il presidente del Milan, Angelo Rizzoli, gli offrì un ruolo da osservatore. Con una lealtà d’altri tempi, l’ormai anziano campione rifiutò, confidando di avere il timore di poter segnalare per sbaglio un “bidone” alla squadra che aveva sempre nel cuore.
Renzo De Vecchi, il “Figlio di Dio”, si spense quindi il 14 maggio 1967.
E se da quel 1967 sono passati ormai quasi 60 anni, i suoi record secolari continuo ad essere parte del giuoco che tanto ci appassiona.