Il tifo non è solo passione: il cervello reagisce come a una scarica di piacere. E quando segnano gli avversari? Ecco cosa dice la scienza.

Il tifo è una malattia. Letteralmente, lo è. Rifacendoci alla definizione, parliamo di una malattia infettiva causata dal batterio Salmonella Typhi, trasmessa principalmente attraverso cibo o acqua contaminati da feci e urine di persone infette o portatori asintomatici.

Quello per una squadra di calcio, invece, non si allontana poi tanto dal concetto di malattia – almeno per gli effetti che ci provoca. Abbiamo già parlato di quanto il nostro corpo venga messo alla prova a livello coronarico durante una partita, ma in realtà succede molto di più. Molto, molto di più.

Perché il tifoso non guarda una partita: la vive, la subisce, la digerisce male e poi la rimastica a distanza di giorni, tra replay mentali e recriminazioni notturne. E no, non è solo narrativa da curva o folklore domenicale. C’è una base scientifica piuttosto seria dietro quei picchi emotivi che ci trasformano da esseri pensanti a creature primordiali urlanti davanti a uno schermo.

Il cervello del tifoso: tra estasi e cortocircuito

Durante una partita il cervello del tifoso entra in una sorta di montagna russa biochimica. Emozioni intense, temporanei addii alla razionalità, improvvise impennate di aggressività o momenti di euforia inspiegabile si alternano a una velocità impressionante, seguendo il ritmo del gioco. Un contropiede, un fallo dubbio, un palo: ogni azione è uno stimolo che accende e spegne circuiti neuronali come fossero fari impazziti.

Proprio su questo si è concentrata una ricerca dell’Università di Santiago del Cile, che ha osservato l’attività cerebrale di un gruppo di tifosi sottoposti a risonanza magnetica mentre rivedevano gol segnati e subiti dalla propria squadra. Non partite qualsiasi, ma momenti emotivamente significativi, quelli che ti porti dietro per anni, come cicatrici o medaglie invisibili.

Quando segna la tua squadra, il cervello reagisce con una scarica di piacere che attiva i circuiti della ricompensa: gli stessi coinvolti in esperienze legate al sesso, al cibo e ad altre forme di gratificazione profonda. È una sorta di estasi controllata (più o meno), una breve sospensione della realtà in cui tutto sembra possibile. Anche vincere il campionato partendo da metà classifica. Anche credere che “questo è l’anno buono”.

La situazione si complica, invece, quando la palla entra nella porta sbagliata. In quel momento si verifica un curioso fenomeno: le aree cerebrali legate alle emozioni più ancestrali – rabbia, frustrazione, senso di ingiustizia cosmica – prendono il sopravvento su quelle deputate al pensiero logico e al controllo. La razionalità fa un passo indietro, l’istinto prende il volante. Ed ecco spiegati certi sfoghi, le urla contro il nulla, i dialoghi surreali con l’arbitro che, chiaramente, è contro di noi da sempre (ma ciò che rende il dialogo ancor più surreale è che l’arbitro – ça va sans dire – non ci ascolta né ci può ascoltare).

Non si tratta solo di reazioni teatrali: questo cortocircuito emotivo nasce da un bisogno profondo di appartenenza. Secondo i ricercatori, il legame con la squadra si struttura spesso fin dall’infanzia, diventando una componente stabile dell’identità personale. Non è solo tifo: è riconoscimento, memoria, appartenenza a una tribù che parla lo stesso linguaggio fatto di cori, sciarpe e sofferenze condivise.

E forse è proprio per questo che certe passioni resistono a tutto: alle retrocessioni, alle stagioni disastrose, ai cambi societari più fantasiosi. Perché non si tifa solo con il cuore, ma anche – e soprattutto – con il cervello (a livello chimico, intendiamo).

Da qui nasce quel proverbio che sembra una battuta ma ha un fondo di verità quasi clinica: si può cambiare moglie, città, lavoro, persino ideologia. Ma squadra? Difficile. Quasi contro natura. (A meno di essere degli Emilio Fede).

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