Pierluigi Collina, appeso il fischietto al chiodo, ha voluto raccontare quale fosse la sua fede calcistica, prima di diventare il miglior arbitro al mondo.
È con ogni probabilità l’arbitro per eccellenza, eccellenza italiana del fischietto capace di imporsi come miglior arbitro al mondo per sei anni consecutivi (tra il 1998 e il 2003), votato dalla Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio (l’IFFHS che nel 2020 lo eleggerà miglior arbitro della storia).
Sarà anche per la sua calvizie (che, se possibile, gli ha dato ulteriore autorevolezza, alla faccia di chi dentro l’AIA temeva l’alopecia potesse danneggiarlo) ma Pierluigi Collina è / è stato un simbolo dell’arbitraggio, il simbolo dell’arbitraggio: un personaggio così importante all’interno dello sport più amato al mondo da conquistare per diversi anni la copertina di uno dei videogiochi di calcio più amati negli anni zero (Pro Evolution Soccer: Collina è sulla copertina di PES 3, PES 4 e PES 5).
[Ad onor del vero, ricordavo un arbitro calvo anche all’interno del videogioco di Konami, ma non ne ho trovato traccia (sarà effeto Mandela?), mentre Collina è presente in FIFA 2005 (nella concorrenza di EA Sports) come arbitro sbloccabile per le partite amichevoli tra nazionali].
Oggi Collina è il presidente della Commissione Arbitrale della FIFA (il capo dei capi degli arbitri, insomma) ma non siamo qui per celebrare il fischietto bolognese, quanto per parlare della sua fede calcistica.
Perché, guardiamoci in faccia, se un arbitro diventa tale è perché da ragazzino s’è appassionato al giuoco del pallone e quando ti appassioni al giuoco del pallone da bimbo è normale che preferisca una squadra rispetto a un’altra: ciò non vuol dire che in seguito i giudizi verranno distorti dalla propria fede (potremmo pensare lo stesso dei calciatori che non si trovano a giocare nella squadra che sostenevano da bambino – ma in quel caso diciamo che sono professionisti, no?) ma è sempre curioso scoprire questo aspetto dei fischietti, che in un mondo ideale dovrebbero poterne parlarne apertamente senza far sì che si creino retropensieri nelle teste (spesso bacate) dei tifosi.
La squadra del cuore di Pierluigi Collina
Pierluigi Collina ha appeso il fischietto al chiodo all’inizio della stagione 2005/06, arbitrando un Pavia-Bari in coppa Italia (il 21 agosto 2005, ultima gara arbitrata in Italia) e un Villarreal-Everton, match di ritorno dei preliminari di Champions League 2005-2006, disputato il 24 agosto del 2005 e terminato con il risultato di 2-1 per i padroni di casa con loro conseguente qualificazione (viziata dal controverso annullamento di una rete degli ospiti, che vedrà in seguito Collina fare autocritica).
Ritiratosi, quindi, ha iniziato a parlare al pubblico (allora gli arbitri potevano parlare poco o niente) e durante una lezione per il corso di laurea in Scienze Motorie della facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Parma, Collina ha ammesso la sua fede calcistica: “Da piccolo tenevo per il Bologna, la squadra della città dove sono nato. Poi mi ha affascinato un’altra aquila, a parte quella della Fortitudo nel basket: la Lazio. A 14 anni giocavo da libero e mi piaceva Pino Wilson, un personaggio con i suoi occhiali Rayban gialli. Peccato che nelle prime dieci partite della Lazio che ho arbitrato, i biancocelesti non abbiano mai vinto. E allora ogni volta non erano contenti della mia designazione”.
Una confessione che non poteva che scatenare polemiche, se è vero che Collina consentì la ripresa dopo il diluvio di Perugia-Juventus, gara che – con la sconfitta dei bianconeri – regalò lo scudetto alla Lazio.
Nel 2018, ai microfoni di Sky, Collina è quindi tornato sull’argomento, puntualizzando:
“Che squadra tifo? Una risposta del genere non può essere breve è c’è bisogno che venga contestualizzata. Se ti dicessi di non aver mai tifato per nessuna squadra, tu saresti autorizzato a dirmi: ‘Scusa, ma da ragazzino che facevi?’. Se avessi avuto la passione per l’arte o la numismatica sicuramente non avrei mai arbitrato in Serie A. Come tutti anche io quando ero ragazzino ho avuto una passione per una squadra. C’è una persona che può esemplificare tutti i ruoli: tifoso, tifoso vero, giocatore, capitano ed è Walter Zenga. All’interno dell’Inter ha fatto tutto poi per un’esperienza professionale diversa è andato a giocare alla Sampdoria, ma nessuno hai mai avuto dubbi su di lui quando giocava contro l’Inter. È una questione di professionalità: tu puoi essere anche tifoso o essere stato tifoso di una squadra, ma poi l’arbitro in campo fa il suo lavoro. È tifoso di se stesso”.
E sulla propria fede ha quindi specificato ulteriormente come il suo essere laziale non fosse un mistero (e per quale motivo l’arbitro migliore del mondo si sarebbe dovuto nascondere?): “Nel calcio la squadra che tifo è la Lazio, mentre nel basket la Fortitudo di Bologna. Quando ero piccolo seguivo il Bologna, poi mi sono avvicinato ai biancocelesti perché avevo passione per quei fantastici giocatori e per Wilson, che mi faceva impazzire. Eppure la Lazio non ha vinto nelle prime dieci volte che l’ho diretta. Si sapeva già che fossi un laziale e sinceramente non vedo cosa ci sia di male. D’altronde, chi opera nel calcio non viene da Marte ed è normale abbia avuto una squadra del cuore. Questo vale per tutti, calciatori, allenatori e arbitri: si può forse dubitare della nostra professionalità?”.