Da simbolo dell’Athletic Club ad allenatore (per lungo tempo federale): la parabola di Julen Guerrero tra fedeltà, declino precoce e presente in panchina.
Gli anni ’90 sono stati anni particolari per il calcio spagnolo: diversi grandi talenti, ma risultati non indimenticabili nelle coppe internazionali. Ad Usa 94, per esempio, le Furie Rosse hanno avuto la sventura di incrociare ai quarti di finale l’Italia di Roberto Baggio (e il gomito di Tassotti). In assoluto, prima di vincere qualcosa, dovranno attendere il 2008 – quando si laureeranno per la seconda volta nella storia campioni d’Europa (bissando il successo di 44 anni prima – in seguito arriveranno anche un Mondiale e altri due europei).
Ma negli anni ’90 la nazionale spagnola era piena di talenti provenienti da tutta la Nazione: c’era l’asturiano Luis Enrique, c’era il catalanissimo Pep Guardiola, c’era l’idolo di Madrid Raúl e in terra basca rispondevano con il bel Julen Guerrero da Portugalete, in “provincia” di Bilbao.
Con la 8 sulle spalle (un numero in più di Raúl) il bel Guerrero gioca tutta la carriera con la maglia dell’Athletic Club – nonostante le offerte di grandi club spagnoli (sia Real che Barça) e italiani come Lazio, Milan e Inter (il club nerazzurro provò ad acquistare Guerrero offrendo come contropartita il non basco Winter, per lo sconcerto dei dirigenti dell’Athletic).
Nei primi del 2000, a nemmeno 27 anni, Guerrero vive l’inizio del suo declino: complice la scelta dell’allenatore di relegarlo in panchina in alcune occasioni, Guerrero inizia a sentirsi meno importante e da qui la sua parabola discendente.
Lo scrivente ha vissuto a Bilbao negli anni ’10 anche per il fascino che in lui aveva suscitato Julen Guerrero e parlando in seguito con abitanti del luogo decisamente accreditati ho avuto riferito che con il declino Guerrero ha iniziato a vivere un momento psicologicamente difficile, fino al ritiro al termine della stagione 2005/06, a poco più di 32 anni (lui è del 7 gennaio 1974) e con 135 reti tra i professionisti in 483 gare.
Cosa ha fatto Julen Guerrero dopo il ritiro (decisamente precoce)?
La traiettoria post-carriera di Julen Guerrero non è stata quella del semplice ex calciatore che scompare dietro una vetrina nostalgica (per altro, con il declino che aveva vissuto – poteva sembrare destinato a un futuro di questo tipo).
Anzi, Guerrero ha scelto una strada coerente con la sua indole silenziosa e riflessiva: quella della formazione, del lavoro con i giovani, della costruzione lenta, quasi artigianale, del calciatore che verrà.
Subito dopo il ritiro, Guerrero ha iniziato a lavorare nel settore giovanile del suo Athletic Club, guidando squadre attraverso le quale passano futuri protagonisti in prima squadra come Mikel San José e Ander Iturraspe.
Il rapporto con il club basco si interrompe definitivamente nel 2008, mentre la sua formazione prosegue: per lui una laurea in giornalismo, un corso da Direttore Sportivo, un master in diritto sportivo e il passaggio nel Málaga come responsabile della “tecnificazione” (traduciamo così tecnificación) dei giocatori, segnale evidente di un interesse profondo per il lato pedagogico del calcio, più che per la vetrina o il riflettore.
L’esperienza andalusa dura poco, finché arriva la chiamata per l’ingresso nella struttura tecnica della Real Federación Española de Fútbol (la Federazione spagnola, insomma). Dal 2018 al 2023 Guerrero lavora stabilmente all’interno della RFEF, prima come selezionatore delle rappresentative Under 15 e Under 16, poi come guida della Sub-17, ruolo in cui emerge per metodo, equilibrio e visione. Non è l’allenatore che urla per farsi sentire, ma quello che costruisce contesto, disciplina mentale e senso della competizione. La sua filosofia si muove lungo una linea chiara: formare, sì, ma senza rinunciare all’ambizione di vincere.
Sotto la sua gestione passano talenti come Gavi, Alejandro Balde, Marc Guiu, Pau Prim, Jon Martín e Peio Huestamendia (Gavi è quello che poi è effettivamente esploso, almeno fino ad oggi): ragazzi che crescono in un’epoca completamente diversa da quella in cui lui calcava i campi, ma che riconoscono in Guerrrero una figura credibile, autorevole, mai distante. Non un mito da poster, ma un punto di riferimento concreto.
I numeri alla guida della Under 17 sono stati davvero importantissimi: venti vittorie, due pareggi e una sola sconfitta alla guida della Sub-17, con l’unico passo falso nei quarti dell’Europeo contro il Portogallo. Un bilancio che testimonia competenza e solidità, anche se il calcio contemporaneo, si sa, non vive solo di statistiche.
Nel 2024 è quindi arrivata una nuova sfida, nel calcio dei “grandi”: la panchina dell’Amorebieta, compagine basca nella Primera Federación (la serie C iberica, per intenderci). Esperienza breve e tutt’altro che felice, conclusa dopo poche giornate a causa dei risultati negativi.
Un passaggio che, per certi versi, fotografa una realtà quasi paradossale: la generazione di Guerrero aveva il calcio nel sangue e lo dimostrano il percorso di allenatori di livello assoluto come i già citati Luis Enrique e Guardiola. Ed eccoci al paradosso: i due calciatori più iconici e romantici di quella generazione – Raúl e Guerrero – sono, almeno per ora, quelli che hanno raccolto meno dal punto di vista tecnico, in panchina.
